GIANCARLO BELLINI
Era magrolino, aveva le spalle strette, andava forte in salita. Di quei corridori che piacevano proprio a Giuseppe Graglia. Che la sapeva lunga: aveva guidato Bartali e Valetti, scoperto Defilippis e Balmamion, ed era certo che quel magrolino con le spalle strette, forte in salita, ne avrebbe fatta di strada. E ancora una volta aveva ragione.
Giancarlo Bellini è stato il primo a vincere il Giro d’Italia dei dilettanti. Era il 1970 e stava per compiere 25 anni. Inserito nella squadra del Piemonte, Bellini vinse la cronometro, in pianura, e poi difese il primato, in salita, contro francesi e svizzeri, polacchi e sovietici, due squadre venete e due lombarde, e i toscani. In tutto, nove tappe: per il vincitore, quella corsa era annunciata come l’alba di un luminoso futuro da professionista.
“La mia prima bici era improvvisata, mi serviva solo per fare qualche pedalata con un amico appassionato di ciclismo. La mia prima vera bici era economica, in ferro, acquistata nella bottega di Giorgio Godio, a Borgomanero, che aveva fatto il Giro con il Bondone sotto la bufera nel 1956. La mia prima corsa da allievo, ma non avevo la minima idea di come si corresse. La mia prima vittoria nel Gran premio Città di Chieri, dilettanti di seconda categoria, e un’idea ce l’avevo: staccai tutti, arrivai da solo, e cominciai a pensare di avere qualche possibilità. Nel 1969 passai a una squadra torinese, organizzata, sponsorizzata, vinsi il Val d’Aosta e l’Arona-Macugnaga, nel 1970 partecipai al Giro dell’Uruguay, quindi al Giro dei dilettanti. Il mio forte erano le salite lunghe ma dolci. Poi feci un errore: convocato in Nazionale per il quartetto della cento chilometri, persi due mesi di gare”. Ma Bellini faceva gola: lo volevano la Filotex di Bitossi e la Salvarani di Gimondi, andò alla Molteni. “Fu una bidonata. Giorgio Albani mi aveva promesso di fare il capitano per le corse a tappe, poi ingaggiò Eddy Merck, e per tre anni gli feci da gregario. D’altra parte, Merckx era un fenomeno”.
Nove anni da professionista, Bellini. “I primi tre, alla Molteni, senza giorni di libertà. Merckx in bici era un Cannibale, giù dalla bici un signore. In corsa voleva, pretendeva, esigeva, senza neanche parlare. Giro d’Italia del 1972, quattordicesima tappa, la Savona-Jafferau, 256 chilometri, saltano tutti i gregari, da Bruyère a Deschoenmaecker, con Eddy rimango solo io. In fuga ci sono Fuente e Lopez Carril. Tiro, mi premo, mi sacrifico, salto anche i rifornimenti, finché ai meno sette non ne ho più, vuoto, zero, tengo tutta la strada, arrivo al traguardo solo perché gli altri corridori, per compassione, mi regalano una spinta. Ma quando arrivo al traguardo, Merckx, che ha vinto la tappa in maglia rosa, interrompe l’intervista per ringraziarmi pubblicamente. E certe parole valgono più di tutto”.
Dal 1974 al 1977 alla Brooklyn per Roger De Vlaeminck, nel 1978 e 1979 alla Zonca per Claudio Corti e Pierino Gavazzi. “Però ogni tanto qualche colpettino riuscivo a darlo. Il Giro di Campania e una tappa del Giro di Svizzera nel 1975, una tappa del Giro di Romandia nel 1976 e un’altra nel 1977, una tappa del Giro d’Italia e una del Giro di Svizzera nel 1978, e la maglia a pois, gran premi della montagna, al Tour de France del 1976. Il bello del ciclismo è l’amore che tutti i corridori hanno, a prescindere dal loro livello. I corridori si dividono in sei categorie: i fuoriclasse, come Merckx; i campionissimi, come Gimondi; i campioni, come Bitossi; i mediani, come nel calcio, come me; i gregari puri; e quelli che corrono due o tre anni e poi si ritirano”.
Tanto amore non poteva esaurirsi così. “Mio figlio Marco. Sciava, e bene: campione delle Alpi occidentali, allievi, discesa libera. Un giorno mi dice che gli piacerebbe andare in bici. E’ dura, lo avverto. Ci provo, mi risponde. Sarebbe diventato professionista”.
Marco Pastonesi